Febbraio 6, 2020

Gli indici di allerta nelle scelte in materia di bilancio

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è intervenuto in maniera innovativa nella disciplina della gestione dell’impresa e nelle attività di verifica degli organi di controllo, del revisore e della società di revisione. Con l’obiettivo di far emergere il più prontamente possibile i sintomi della crisi, si impongono nuovi obblighi di monitoraggio, che operano sia sul piano economico, sia su quello patrimoniale-finanziario. In questo ambito lo studio flammia.it supporta le scelte degli amministratori in materia contabile che assumono particolare rilievo, considerati i riflessi che possono derivarne sugli indicatori di allerta previsti dalla nuova disciplina. Nelle intenzioni del legislatore, la riforma del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. n. 14/2019, CCII) ambisce principalmente ad anticipare la manifestazione dell’insolvenza, così da migliorare l’efficacia degli strumenti di gestione della crisi e limitare la possibilità che l’impresa economicamente inefficiente e finanziariamente in difficoltà continui ad operare sul mercato, incrementando gli effetti negativi che il suo agire potrebbe produrre sui suoi stakeholders. Le modalità con cui il CCII impone all’impresa di verificare il suo stato di salute economico e finanziario si fondano sull’obbligo di dotarsi di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile. Di monitorare periodicamente le proprie performance economiche e finanziarie. Gli adempimenti di carattere organizzativo traggono il loro presupposto dalla modifica che l’art. 375 del CCII ha apportato all’art. 2086 del Codice civile, introducendo il secondo comma in base al quale “L’imprenditore, che operi in forma societaria, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. Il nuovo art. 2086 c.c. estende a tutte le società l’obbligazione già presente nel nostro ordinamento per le società per azioni ai sensi dell’art. 2381 c.c., precisando che l’impianto complessivo dell’organizzazione deve essere “anche” idoneo a rilevare le situazioni di crisi di impresa e la perdita della continuità aziendale. La portata innovativa dell’art. 2086 c.c. deve, quindi, inquadrarsi nella necessità di contemplare all’interno della organizzazione aziendale un sistema di procedure dedicato specificamente alla rilevazione della crisi d’impresa. L’obbligo dell’impresa di adottare adeguati provvedimenti organizzativi, per rispondere alle finalità previste nell’art. 2086 c.c., si riflette nella correlata previsione di cui al primo comma dell’art. 14 del CCII che impone agli organi di controllo, al revisore contabile e alla società di revisione “di verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti iniziative, se l’assetto organizzativo dell’impresa è adeguato, se sussiste l’equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi”. Il secondo comma dell’art. 2086 c.c. e l’art. 14 CCII incidono, pertanto, nella governance aziendale, da un lato attribuendo all’organo amministrativo l’obbligo di costruire un’adeguata organizzazione a presidio del rischio di crisi d’impresa, e, dall’altro, attribuendo ai diversi organi di controllo l’obbligo di verificare che le informazioni prodotte dal complessivo impianto organizzativo siano effettivamente oggetto di attenta valutazione da parte di chi gestisce l’impresa. Il sistema di allerta anche con l’applicazione degli indici di allerta nella crisi di impresa si completa con le previsioni contenute nell’art. 13 del CCII, che definisce le modalità operative con le quali la società deve procedere a monitorare il proprio stato di salute economico-finanziaria. Ai sensi del primo comma dell’art. 13 CCII, l’azienda è tenuta ad effettuare il monitoraggio delle proprie performance reddituali, patrimoniali e finanziarie, tramite “appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità”. Il medesimo comma definisce i primi tre indicatori rappresentativi delle grandezze economiche, patrimoniali e finanziarie da porre sotto osservazione, ovvero: – la misurazione della sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare; – l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi; nonché´ – i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, in particolare con riferimento al superamento di alcune soglie di materialità, ai sensi dell’art. 24 CCII, dei debiti per retribuzioni e dei debiti verso fornitori. Il secondo comma dell’art. 13 CCII definisce un secondo strumento di misurazione delle performance, delegando al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (CNDCEC) l’elaborazione di un sistema basato sugli indici di allerta nella crisi di impresa la cui valutazione unitaria possa far “ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa”. L’utilizzo degli indici individuati dal CNDCEC all’interno del proprio sistema di allerta e` per la società una facoltà, che può essere adottata solo nella misura in cui si ritenga che tali indici siano idonei, in ragione delle caratteristiche proprie dell’impresa, al perseguimento delle finalità dettate dall’art. 2086 c.c. Infatti, il terzo comma dell’art. 13 CCII prevede che “L’impresa che non ritenga adeguati, in considerazione delle proprie caratteristiche, gli indici elaborati a norma del comma 2 ne specifica le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio e indica, nella medesima nota, gli indici idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in rapporto alla specificità dell’impresa”. 2. Indici della crisi e delega al CNDCEC Il 20 ottobre 2019 il CNDCEC ha pubblicato, in bozza, il documento “Gli indici dell’allerta, ex art. 13, comma 2 Codice della crisi e dell’insolvenza”, documento ora sottoposto all’approvazione del Ministero dello Sviluppo economico. Nel definire gli indici, il CNDCEC ha proposto un sistema di misurazione delle performance basato su due gruppi. Un primo gruppo ritenuto idoneo per tutte le imprese, senza distinzione per categoria merceologica, ed un secondo gruppo, indici di settore, costituito da cinque indici, omogenei per tutte le imprese ma distinti per classi merceologiche rispetto al valore soglia che i singoli indici assumono per indicare il rischio di crisi. Gli indici del primo gruppo sono costituti: – dall’entità del patrimonio netto, in termini di verifica se esso assume valore negativo o al di sotto dei minimi di legge previsti per le società di capitali. Si tratta, pertanto, di un indicatore, piuttosto che un indice, non essendo costituito da un rapporto tra due dati contabili; – dal debt service cover ratio “DSCR”. Gli indici del secondo gruppo, ovvero gli indici di settore, sono i seguenti: – indice di sostenibilità degli oneri finanziari, in termini di rapporto tra gli oneri ed il fatturato; – indice di adeguatezza patrimoniale, in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali; – indice di ritorno liquido dell’attivo, in termini di rapporto tra cash flow e attivo; – indice di liquidità, in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine; – indice di indebitamento previdenziale e tributario, in termini di rapporto tra l’indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo. Per ognuno dei cinque indici di settore sono stati individuati i valori soglia distinti per dieci settori di attività merceologiche. Il CNDCEC ha precisato che il sistema di indicatori individuato – suddiviso nei due gruppi di cui sopra – da un punto di vista logico deve intendersi come gerarchico, dovendo l’applicazione degli stessi avvenire in sequenza. Più dettagliatamente, un patrimonio netto negativo o inferiore al minimo di legge determina come ipotizzabile una situazione di crisi, da cui consegue la necessità di attivare le azioni previste dal CCII a risoluzione della stessa. In tal caso, non si dovrà procedere al calcolo degli altri indici. Diversamente, ove la verifica dei valori del patrimonio netto non segnali elementi di criticità, i controlli si estendono al DSCR. Anche in questa circostanza, ove tale indice assuma valore inferiore a 1, e` ipotizzabile la crisi, con conseguente attivazione delle azioni a risoluzione. Solo ove il DSCR non sia disponibile – o la sua rilevazione sia giudicata inattendibile – il sistema di allerta degli indici di allerta nella crisi di impresa dovrà prendere in considerazione i cinque indici di settore. In tale situazione, solo nel caso in cui siano stati superati contemporaneamente tutti i tassi soglia previsti per i cinque indici si presume che la società sia in una situazione di crisi, non essendo considerato come significativo, al contrario, il superamento di uno o più ma non di tutti i valori soglia definiti. Dalla ricostruzione normativa sopra riportata si evince come il combinato disposto dal secondo comma dell’art. 2086 c.c. e dall’ultimo comma dell’art. 13 CCII imponga all’organo amministrativo di definire un sistema di indicatori proprio, ovvero adeguato alla specifica realtà aziendale. In tale contesto, ove la società`, nella costruzione del proprio sistema contabile di allerta, intenda avvalersi degli indici proposti dal CNDCEC, dovrà sottoporre tali indici ad un giudizio critico di adeguatezza, al fine di verificare se essi possano essere idonei, nel caso specifico dell’impresa, ad evidenziare, in maniera adeguata, l’emersione di elementi che “facciano ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi d’impresa”. Il medesimo giudizio di idoneità è richiesto agli organi di controllo, al revisore e alla societa` di revisione, ai sensi del primo comma dell’art. 14 del CCII. In altri termini, gli indici proposti dal CNDCEC non possono essere interpretati come degli indicatori sicuri, adeguati a tutte le realtà aziendali, e come tali da non sottoporre ad alcuna valutazione di merito. Al contrario, ove la società intenda utilizzare tali indici per la costruzione del proprio sistema di allerta, essi dovranno essere sottoposti a verifiche di significatività in ragione delle caratteristiche proprie della singola impresa. L’esame della metodologia con cui il CNDCEC ha definito gli indici di allerta costituisce, pertanto, un presupposto che deve essere opportunamente valutato dagli amministratori per la definizione del sistema di allerta della società .Il documento del CNDCEC, nella sezione relativa alla metodologia utilizzata, evidenzia di aver condotto l’analisi in collaborazione con il CERVED, sottoponendo ad esame 568 mila bilanci, corrispondenti a circa 181 mila imprese, appartenenti a 6 coorti annuali dal 2010 al 2015. Le imprese selezionate nel campione avevano depositato almeno tre bilanci, esercitavano una attività economica diversa da quella finanziarie ed immobiliare. Il campione utilizzato, inoltre, e` stato costituito da piccole imprese (con l’esclusione delle micro imprese), da imprese medie e da grandi imprese, rispettivamente con percentuali pari al 67,4%, al 24,9%, al 7,7%. Occorre rilevare che, nonostante le tre categorie di imprese siano rappresentate all’interno del campione, nel definire i valori soglia la dimensione delle imprese non e` presa in considerazione, essendo tali valori determinati esclusivamente con riferimento ai diversi settori di attività. Per la costruzione del sistema di allerta, quindi, non sembrerebbe significativa la dimensione dell’impresa, essendo i valori soglia definiti senza alcuna distinzione di natura dimensionale. La decisione di non considerare la variabile dimensionale nello sviluppo degli indicatori si giustifica alla luce del fatto che dalle analisi condotte da CNDCEC e CERVED le indicazioni derivanti dai test sulle tre categorie di imprese non avrebbero fatto emergere differenze sostanziali nei risultati in termini di significatività degli indici rispetto alla loro capacità di segnalare situazioni di default. Inoltre, per quanto attiene le modalità di trattamento dei bilanci, nell’appendice metodologia del documento, è precisato che i bilanci originali, in formato XBRL, sono stati controllati ed arricchiti con le informazioni estratte dalla nota integrativa e da altre fonti. I dati dei prospetti di Stato Patrimoniale, Conto Economico e del Rendiconto finanziario sono stati integrati, ove necessario e possibile, con le informazioni contenute nella nota integrativa. In assenza di altre precisazioni, si può ritenere che le voci espresse nei bilanci non siano state oggetto di una rideterminazione volta ad omogeneizzarne i criteri di valutazione. Nel confrontare i valori dei cinque indici di settore con il risultato di quelli propri dell’azienda, pertanto, occorrerà tener presente che i parametri forniti dal documento del CNDCEC risentono di una estrapolazione su base campionaria, non omogenea in termini di rappresentazione delle voci di bilancio utilizzate per il calcolo degli indici. 3. Indici di allerta e scelte di bilancio Venendo agli aspetti più applicativi della nuova disciplina, un profilo meritevole di essere approfondito riguarda la possibilità di “adattare” gli indici di allerta. Non e` agevole individuare delle fattispecie tipiche nelle quali poter concludere che tale adattamento e` sicuramente legittimo, soprattutto quando la “particolarità” della situazione dell’impresa sia da ricondurre a dinamiche gestionali o a situazioni di contesto anomale e, in quanto tali, tendenzialmente imprevedibili. In questi frangenti, le procedure attivate a presidio del monitoraggio delle performance aziendali dovranno considerare i caratteri specifici della società e verificare quanto la composizione della struttura patrimoniale o le modalità di produzione del reddito possano diversificarsi rispetto a quelle degli altri operatori della medesima classe merceologica/settore di attività. In un approccio generale, e prescindendo dai profili di diversità gestionale specifici della singola impresa, si può esplorare la possibilità di considerare adattabili gli indici quando l’organo amministrativo abbia fatto delle scelte in termini di policy contabili che, alla luce degli indicatori individuati dal CNDCEC, si sono rilevate indebitamente penalizzanti. E `il caso, almeno in teoria, della valutazione delle rimanenze: ove la società avesse valutato i beni fungibili al LIFO potrebbe essersi generata una plusvalenza latente di entità non trascurabile rispetto ai valori di patrimonio netto. Lo stesso dicasi per la valutazione delle partecipazioni qualificate. Anche in questa circostanza, la valutazione al costo implica spesso l’esistenza di plusvalenze latenti che emergerebbero, almeno parzialmente, nel caso in cui la società optasse per la valutazione secondo il metodo del patrimonio netto. Ancora più distorcenti potrebbero essere gli effetti che derivano dalle politiche contabili adottate dalla società in assenza di indicazioni normative nel sistema dei principi contabili nazionali. Si pensi, soprattutto, ai conferimenti di rami d’azienda, contabilizzati – secondo le prassi attualmente invalse- a valori correnti o in continuità di valori. Dalla scelta operata dalla conferitaria potrà pertanto emergere o meno una riserva sopraprezzo che in molte circostanze e` di entità estremamente rilevante rispetto al valore del patrimonio netto contabile. Anche qui, ai fini del calcolo degli indicatori di allerta, si può valutare l’ipotesi di considerare la riserva che sarebbe emersa ove la società si fosse avvalsa della facoltà di far emergere tutto il valore assegnato dal perito al ramo oggetto di conferimento. Nelle circostanze sopra richiamate, sembra, se non opportuno, almeno praticabile un adattamento dei parametri di allerta che potrà risolversi sia in una rettifica dei valori considerati ai fini del calcolo dell’indicatore (soprattutto nel caso dell’indicatore patrimonio netto), sia in una modifica al valore soglia individuato dal CNDCEC. Più controverso è il caso in cui, ai fini del calcolo degli indicatori di allerta, non e` la scelta in termini di policy contabile a penalizzare l’impresa, ma le modalità tecnico-giuridiche prescelte per realizzare l’operazione. L’esempio eclatante è rappresentato dagli acquisti di cespiti realizzati attraverso contratti di leasing finanziario, che – pur producendo sul piano della solidità patrimoniale della società gli stessi effetti di un acquisto finanziato a credito – sono fortemente penalizzati dalla disciplina contabile vigente, che inibisce l’iscrizione in bilancio del bene oggetto di acquisto e impone la rilevazione dell’intero canone pagato come costo dell’esercizio. Diversamente da quanto visto in precedenza, dove il ricalcolo degli indici di allerta nella crisi di impresa (o dei valori soglia) è funzionale a individuare un valore che sarebbe comunque emerso se la società avesse fatto scelte contabili più vantaggiose, in questa circostanza il bilancio inibirebbe in modo assoluto l’emersione di questi plusvalori. Ci si può interrogare, a questo punto, se è ipotizzabile “rettificare” il bilancio redatto secondo i principi contabili nazionali per recepire plusvalori che emergerebbero ove la società applicasse i principi contabili internazionali IAS/IFRS. In linea di principio, pare potersi escludere la possibilità di modificare i valori del bilancio limitatamente a singole fattispecie/operazioni specifiche che verrebbero rideterminate a valori IAS/IFRS. Esigenze di coerenza complessiva dei valori di bilancio rendono opportuno che tutte le grandezze del bilancio siano determinate ricorrendo ad un framework di regole unitario. Ugualmente impervia appare la strada di rideterminare tutto il bilancio a valori IAS/IFRS ai soli fini del calcolo degli indici di allerta nella crisi di impresa. In questo caso, potrebbe essere di ostacolo il fatto che l’attendibilita` dei valori che si individuerebbero non sarebbe confortata dal sistema di controlli che la governance di una società di capitale usualmente prevede per il bilancio sottoposto a deposito. Rimane, ovviamente, la possibilità di adottare gli IAS/IFRS per la redazione del bilancio. Scelta, questa, ormai praticabile per tutte le società che superano i limiti di cui all’art. 2435-bis c.c., ma che – è bene ricordarlo – è tendenzialmente irreversibile. Scelta, poi, che pone ulteriori problemi nella definizione degli indici di allerta nella crisi di impresa rispetto a quelli sopra descritti. Il documento del www.commercialisti.it/ non affronta in modo specifico il tema dei bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali e si limita a precisare che nel calcolo del patrimonio netto sono escluse le riserve specifiche derivanti dagli IFRS. Si citano, al riguardo, le riserve derivanti dalla valutazione al fair value, le riserve attuariali e la riserva stock option. Questa disposizione si presta, almeno in linea teorica, a due diverse letture. Secondo una prima lettura, si potrebbe ipotizzare che l’adozione degli IAS/IFRS debba essere tendenzialmente neutrale rispetto al sistema degli indicatori di allerta, con la conseguenza che gli amministratori sarebbero tenuti a rettificare il patrimonio netto del bilancio redatto con i principi internazionali per ricondurlo al valore che avrebbe avuto se fossero stati utilizzati i principi contabili nazionali. Il che appare fuori luogo non soltanto per il pregiudizio in termini di costi amministrativi che ne deriverebbe, ma anche perché´ metterebbe in discussione la capacità del sistema degli IAS/IFRS di fornire una rappresentazione utile all’investitore delle effettive consistenze patrimoniali della società`e per gli indici di allerta nella crisi di impresa. Se questo fosse, tutto l’impianto normativo contabile non soltanto nazionale ma anche europeo andrebbe rimesso in discussione. In una seconda lettura, più plausibile, il documento del CNCDEC si vuol limitare a disinnescare gli effetti soltanto di alcuni fenomeni circoscritti che, non trovando applicazione diffusa nel campione di bilanci esaminati, sarebbe bene rettificare per non compromettere l’attendibilità del sistema dei valori soglia da un punto di vista statistico. Il che, se appare sicuramente convincente sotto un profilo metodologico, desta qualche perplessità quando si considerino gli esempi individuati nel documento. Per ciò che concerne le riserve da fair value, ad esempio, stupisce il fatto che analoga previsione non sia stata disposta per le riserve iscritte nei bilanci OIC a fronte di rivalutazioni ex lege. Per le immobilizzazioni materiali e immateriali, soprattutto, il ricorso al revaluation model ex IAS 16 e 38 è ben più sporadico delle rivalutazioni operate ai sensi delle leggi speciali che, con cadenza sistematica, vengono ormai riproposte da anni. Anche l’esclusione delle riserve attuariali e delle riserve da stock option non convince. Con riguardo alle prime, occorre considerare che rappresentano parte dell’accantonamento fatto a fronte di un fondo che, con ogni probabilità`, andrebbe stanziato anche nei bilanci redatti secondo i principi nazionali. Nell’ottica di valutare gli indici di allerta nella crisi di impresa si faccia l’esempio di un soggetto OIC adopter che avesse garantito ai propri dipendenti benefici di natura previdenziale successivi alla cessazione del rapporto di lavoro. Gli amministratori, per determinare il fondo ex OIC 31, potrebbero ben avvalersi di tecniche attuariali simili, quando non coincidenti, con quelle descritte nello IAS 19. Se così fosse, le variazioni del fondo che si manifestassero per effetto della variazione delle ipotesi attuariali concorrerebbero a formare il risultato economico dell’esercizio e sarebbero pienamente considerate per il calcolo del patrimonio netto. Non si vede perché´ lo stesso non debba accadere per un soggetto IAS adopter. Ancor più ingiustificata appare l’esclusione delle riserve da stock option ex IFRS 2. Il principio in questione impone di rilevare un costo d’esercizio di pari importo a fronte della citata riserva, con il risultato che il patrimonio netto del soggetto IAS adopter coincide, a parità di condizioni, con quello del soggetto OIC che contabilizza il piano di stock option in modo tradizionale. Pure in questa circostanza, l’esclusione della riserva da stock option produce una penalizzazione indebita e incoerente con l’obiettivo di avvicinare il patrimonio netto determinato secondo gli IAS/IFRS al valore che avrebbe se determinato con le regole nazionali. di Giuseppe Lo Prete (*) e Alessandro Sura (**)